LEGGE 219/2017: UNA BUSSOLA PER I MEDICI TRA DIRITTI, DOVERI E COSCIENZA CLINICA
- DOTT.SSA DE ZORDO VERONICA

- 6 giu
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 16 lug

Nel frenetico susseguirsi di turni, urgenze e scelte cliniche sempre più complesse, il medico contemporaneo rischia spesso di trovarsi privo del tempo necessario per riflettere su una domanda fondamentale: che cosa mi chiede davvero la legge, quando mi trovo al letto del paziente?
Tra le norme che più hanno inciso sulla relazione di cura vi è senza dubbio la Legge 22 dicembre 2017, n. 219, rubricata “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (DAT)”. Una legge che non si può ridurre a mera tecnica applicativa, ma che interpella in profondità la coscienza del medico, la sua deontologia, e il rapporto fiduciario con il paziente.
Il tempo della comunicazione è tempo di cura
La norma apre con una dichiarazione tanto semplice quanto rivoluzionaria: “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” (art. 1, co. 8).
Non si tratta di un’affermazione retorica: essa ha valore giuridico, oltre che simbolico. Parlare con il paziente, comprenderne la visione del mondo, spiegare in modo accessibile e trasparente rischi, benefici e alternative di un trattamento, è parte integrante dell’atto medico.
L’informazione non è una formalità, né un atto di autodifesa, bensì un dovere giuridico e deontologico che concorre a realizzare il principio costituzionale di autodeterminazione dell’individuo (artt. 2, 13 e 32 Cost.).
In questo quadro, il consenso informato non è più solo una firma su un modulo, ma l’esito di un dialogo, che richiede tempo, empatia, competenza comunicativa.
Le DAT: ascoltare oggi per rispettare domani
L’art. 4 della legge introduce e disciplina le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT), con cui ogni persona maggiorenne e capace può esprimere, per il caso di futura incapacità, le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché indicare un fiduciario.
Queste “lettere al futuro”, spesso percepite dai medici come un elemento estraneo o incerto, pongono invece interrogativi cruciali:
In che modo vanno lette e interpretate?
Che valore attribuire a disposizioni rese anni prima rispetto all’attuale condizione clinica?
E se le DAT chiedono trattamenti oggi ritenuti sproporzionati o non più efficaci, il medico è obbligato a seguirle?
Il legislatore, qui, ha lasciato margini di valutazione alla coscienza e alla responsabilità del medico, pur prevedendo (art. 4, co. 5) la possibilità di disattendere le DAT solo in caso di incongruità manifesta o di sopravvenute terapie non prevedibili all’epoca della redazione.
Si tratta dunque non di un vincolo assoluto, ma di un patto fiduciario, da onorare con attenzione, interpretazione e sensibilità clinica.
Nutrizione e idratazione: trattamenti o atti dovuti?
Uno degli aspetti più controversi della legge riguarda la nutrizione e l’idratazione artificiali, qualificate dall’art. 1, co. 5 come “trattamenti sanitari”.
Ciò implica che possono essere oggetto di rifiuto o rinuncia da parte del paziente. Tuttavia, la sospensione di tali trattamenti, quando conduce alla morte per inedia o disidratazione, pone interrogativi di ordine bioetico: si tratta ancora di rispetto della volontà, o si sconfina nell’abbandono terapeutico o addirittura in forme di eutanasia passiva?
La giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha affermato con chiarezza che il rifiuto del trattamento costituisce esercizio di un diritto fondamentale , ma il margine di discrezionalità resta ampio e il terreno, per il medico, assai insidioso.
Il rifiuto è tutelato. Il consenso (positivo), meno
L’art. 1, co. 6 stabilisce che il medico è esente da responsabilità civile o penale se rispetta la volontà del paziente di rifiutare o interrompere un trattamento.
Questa esenzione è chiara e forte. Ma manca una tutela simmetrica per il paziente che, al contrario, chieda di essere curato contro il parere del medico. In altri termini, la legge protegge l’autodeterminazione negativa, ma lascia scoperta quella positiva.
Questo disequilibrio ha portato la dottrina a interrogarsi: può un medico negare un trattamento palliativo, un sondino o una flebo ritenuti “inutili”, se il paziente li richiede? E in caso di contrasto tra medico, paziente e fiduciario, chi è legittimato a decidere? Al momento, manca un vero organo di garanzia o mediazione.
Quando la medicina si fa dovere di rinuncia
L’art. 2, co. 2 prevede che, in presenza di prognosi infausta a breve termine o imminenza della morte, il medico deve astenersi da ogni accanimento terapeutico, limitandosi a garantire cure palliative e sedazione del dolore.
Tuttavia, la norma non definisce esattamente cosa si intenda per “breve termine” o per “imminenza della morte”, affidando tutto alla discrezionalità clinica.
In casi complessi – come patologie pediatriche neurodegenerative con aspettativa pluriennale ma irreversibile – la tensione tra obbligo normativo e responsabilità clinica può diventare drammatica.
Il medico può dire “no” alla vita?
La legge, all’art. 4, co. 5, consente al medico di non dare seguito a DAT “positive”, se ritenute non coerenti con lo stato clinico o superate dai progressi scientifici. Ma non gli riconosce lo stesso potere in caso di DAT negative, cioè di rifiuto delle cure.
Si crea così una asimmetria normativa, per cui il medico può legittimamente disattendere chi chiede la vita, ma non chi chiede la morte, purché lucido e consapevole.Una tensione etica e giuridica di fondo, su cui il legislatore dovrà tornare a riflettere.
Cura o danno erariale? Il peso dei bilanci sulla scelta clinica
Infine, un tema raramente affrontato: il rischio di responsabilità amministrativa del medico. Se questi, in ambito pubblico, decide di proseguire trattamenti ritenuti inutili o sproporzionati, può essere chiamato a rispondere per danno erariale davanti alla Corte dei Conti.
In altre parole, l’atto medico può essere sindacato non solo sotto il profilo clinico, ma anche sotto quello economico-gestionale, con evidenti implicazioni sulla libertà terapeutica e sull’etica della cura.
La Legge 219/2017 è una legge importante, ispirata al rispetto della persona, alla libertà e alla dignità del fine vita. Ma è anche una legge che non si limita a regolare la medicina: la interroga.
Il medico, di fronte a essa, non può limitarsi ad applicarla. Deve interpretarla, comprenderla, contestualizzarla, mettendo in gioco la propria coscienza, la propria esperienza e il proprio ascolto.
Questa non è solo una legge sul morire. È una legge sul senso del curare, sul confine sottile tra cura e accanimento, tra rispetto e abbandono.
Una legge che chiede al medico di essere, più che mai, medico e persona.








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